Pochi giorni fa abbiamo trattato il caldo tema della legge 104 e annunciato che il Ministero dell’Istruzione e della Ricerca stava predisponendo un piano per stanare i furbetti che ancora oggi si avvalgono dei permessi e delle agevolazioni offerte da questa legge pur non avendone in realtà alcun diritto. Come sappiamo, la legge numero 104 del 1992 è stata ideata e portata avanti con un obiettivo ben preciso: quello di permettere alle persone disabili e più in generali non autosufficienti di potersi avvalere di alcuni giorni di permesso retribuiti dal lavoro, e questa condizione vale tanto per loro quanto per i familiari che se ne prendono cura.
Ebbene, mentre il MIUR sta cercando di stanare chi abusa di queste agevolazioni – dato che secondo una recente ricerca il pubblico impiego farebbe un uso massiccio della 104 rispetto al comparto privato – su questa materia è intervenuta anche la Cassazione. La Corte, in una sentenza di alcune settimane fa, ha persino confermato la legittimità di un licenziamento sorto proprio in seguito all’abuso dei permessi da 104.
Ma andiamo con ordine. La Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi sul caso di un lavoratore licenziato dall’azienda perché pur avendo richiesto regolarmente tre giornate di permessi ai sensi della legge 104, in realtà aveva prestato assistenza al parente disabile solo per 4 ore e 13 minuti, ossia per appena il 17.5% del tempo concesso complessivamente dai suoi datori. Il lavoratore aveva fatto ricorso al licenziamento, ma tanto in primo quanto in secondo grado i Tribunali avevano dato puntualmente ragione all’azienda. Il motivo, molto semplice: la condotta del dipendente era ritenuta “indice di disinteresse rispetto alle esigenze aziendali e ai principi generali di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto, senza che potesse rilevare in senso contrario, stante l’idoneità della condotta a ledere il rapporto fiduciario, la sussistenza di un marginale assolvimento dell’obbligo assistenziale”.
E poi, appunto, è giunta anche la sentenza della Cassazione a confermare le decisioni dei Tribunali: nella sentenza, la Corte ha ammesso la sussistenza di una condotta poco consona da parte del lavoratore e avvallato dunque la legittimità del licenziamento voluto dall’azienda.